Era uno di quei libri che si trovava sulla mensola del soggiorno in casa di mia madre. Non ricordo quanti anni avessi, forse 15, ma ricordo che iniziai a leggerlo e che, dopo poche pagine, decisi che non ci capivo un bel nulla. Non poteva esserci storia più distante da me di quella di un ricco trentacinquenne che di punto in bianco smette di dipingere perché si annoia. Quanto mi sbagliavo.
O meglio, un po’ di ragione l’avevo avuta, all’epoca, pensando di non capirci nulla. Perché la noia che dà il titolo all’opera non è affatto quella intesa dal senso comune, bensì una sensazione molto più sottile, subdola direi, che, vent’anni dopo quel mio infruttuoso primo approccio al libro ho, forse, imparato a riconoscere.
Avrebbe suscitato invece il mio interesse Cecilia, se solo avessi avuto la pazienza di andare un po’ più avanti con la lettura. La femme fatale, la Lolita, in cui mi sarei riconosciuta e immedesimata. Questo però, a trent’anni suonati, mi risulta ormai difficile. Ho invece trovato naturale, in quest’epoca, entrare in sintonia con Dino, soprattutto in rapporto a ciò che è, o dovrebbe essere, la realtà che lo circonda.
Come tutti i capolavori, questo libro ha la capacità di creare un continuo crescendo di curiosità, che mi ha portata, capitolo dopo capitolo, a non volermi più staccare dalle sue pagine e a leggerle con una foga sempre maggiore, fino alla soddisfazione finale di aver raggiunto l’ultima frase scritta dall’autore. È però una soddisfazione istantanea, a cui è subentrato subito dopo un certo senso di mancanza: avrò davvero colto l’essenza del romanzo?
Inutile sottolineare l’incapacità del film di Damiani, ispirato al romanzo, di richiamare le stesse sensazioni prodotte dal libro. Ad indispormi è stata l’assoluta distanza nell’aspetto esteriore fra Buchholz e il Dino descritto da Moravia: per tutto il libro mi sono figurata il protagonista con testa calva circondata di capelli biondi e ricci troppo lunghi, un’ombra di barba rossiccia sulle guance, […] con la fronte che pareva una visiera calata sugli occhi celesti e iniettati di sangue, il naso corto, la bocca prominente: insomma, una specie di scimmione. Dino non è affatto il belloccio del film. E non parliamo dell’assenza di tutta l’introspezione che impregna le pagine del romanzo e il mancato approfondimento del suo tema centrale: la noia.
A proposito di Dostoevskij, vedo in Dino che finanzia le uscite amorose fra Cecilia e Luciani il lontano riflesso di Kátja che dà i tremila rubli a Mítja Karamàzov perché possa spassarsela con Grùšen’ka. Chissà se Moravia ci aveva pensato. E comunque, se oggi potessi fare una domanda a Moravia, gli chiederei se è lecito definire la noia come il contrario della passione. O se invece, anche questa volta, non ci ho capito proprio niente.